« Il vero Montalbano era mio nonno »
«SI CHIAMAVA CARMELO, FU FUNZIONARIODI POLIZIA NEGLI ANNI ´20 E FINÌ AL CONFINO PER LA  SUA INCORRUTTIBILITÀ », CI DICE STEFANIA, CUGINA DELLO SCRITTORE Andrea Camilleri ( 1925-2019)

Il regime fascista si servì dell’attentato organizzato in occasione della visita del re alla Fiera di Milano nel 1928, dove morirono 20 persone, per incarcerare vari gruppi di oppositori. Il commissario Camilleri potè svelare i nomi dei veri colpevoli solo dopo la Liberazione.

Il Commissario Camilleri

Il fascino del commissario Salvo Montalbano, nato dalla penna dello scrittore siciliano Andrea Camilleri, resiste nel tempo, grazie anche alla fortunata serie televisiva interpretata da Luca Zingaretti. E quando, di recente, l’attore ha annunciato di voler smettere i panni del suo personaggio, il pubblico ha avuto la sensazione di perdere, con Montalbano, non solo un grande protagonista, ma quasi una persona di famiglia, una specie di eroe della porta accanto.

Ebbene il commissario più amato dagli italiani è realmente esistito, come ammise lo stesso Camilleri raccontando nel suo libro “Esercizi di memoria” che ad ispirarlo era stato un suo parente, lo zio Carmelo, del quale siamo riusciti a ricostruire l’identità. A fornirci questa straordinaria testimonianza è Stefania Camilleri, cugina in secondo grado di Andrea, a sua volta scrittrice, che alla finezza intellettuale unisce una sottile vena di ironia.

«Lo “zio Carmelo” era il mio nonno paterno, Carmelo Camilleri», rivela. «Ha avuto un posto nella storia e merita di essere ricordato, a dimostrazione che talvolta la realtà è più affascinante della sua rappresentazione letteraria e cinematografica».

Stefania, una donna dai molteplici talenti, informatica, acquarellista, autrice di un libro, “La strega e l’architetto (Emia Edizioni)”, scritto a quattro mani con Dante Frontero, non è condizionata dalla sua illustre parentela e precisa:

«Non ho mai incontrato il “papà” di Montalbano, ma devo dire che la vocazione letteraria è sempre stata una caratteristica della nostra famiglia, a partire proprio da mio nonno, che fu giornalista, scrittore ed editore. Scriveva bene, ma al liceo venne preso di mira dal professore di lettere che, a causa della sfacciata abitudine del nonno a dire sempre ciò che pensava, ad ogni suo tema gli affibbiava un 3. Il nonno, sentendosi vittima di una ingiustizia, chiese allora al suo lontano cugino Luigi Pirandello, già da allora affermato drammaturgo, di svolgere un tema per suo conto che, inutile dirlo, si meritò anch’esso il solito misero voto».

Stefania, come ricorda suo nonno?

«Per me è sempre stato nonno Bebè, un nomignolo derivante da baby, in quanto sua madre era inglese. Bebè, in antitesi col suo aspetto di uomo serio e autorevole, era però capace di grande tenerezza quando, da bambina, mi accoccolavo sulle sue ginocchia.

Nonno Bebè, scomparso nel 1962, era stato un commissario di polizia e, come Montalbano, fu un funzionario incorruttibile, al servizio dello Stato. Nella sua lotta contro la mafia, fu il braccio destro di Cesare Mori, detto il prefetto di ferro, celebrato poi dal regista Pasquale Squitieri nell´omonimo film. Con lui il nonno assaliva a cavallo i covi dei mafiosi rischiando la vita. E per spiegare a quali rischi si esponesse, basti dire che quando, nel 1925, a Gibellina, nonna Tina partorì mio padre, il medico da cui fu assistita fu ucciso dalla mafia assieme al cane di mio nonno, che era di guardia fuori dalla porta di casa: un episodio terribile che spinse la nonna a trasferirsi a Roma con mio padre di pochi mesi, lasciando il nonno in Sicilia a combattere la mafia».

Quali furono i rapporti di suo nonno con il regime fascista?

«Nonno Bebè fu condannato a cinque anni di confino direttamente da Mussolini, per il suo rifiuto di insabbiare un’inchiesta in cui erano coinvolti dei fascisti nell’attentato al re a Milano del 1928. Dopo un anno e mezzo la pena gli venne condonat,a ma il nonno, che era anche avvocato, rifiutò incarichi di ripiego, usando la sua professione per difendere i diritti dei più deboli, fino a salvare, nascondendole nella sua casa di Corso Trieste, molte famiglie ebree nella Roma occupata dai nazisti.

Reintegrato nel servizio nel dopoguerra, diventò giornalista ed editore della rivista del corpo di Polizia, ¨Ordine Pubblico¨, impegnandosi per creare un sindacato dei poliziotti, all’epoca privi di ogni tutela legale».

In che modo Andrea Camilleri si ispirò a suo nonno?

«Quando era ancora uno studente, credo di scenografia, Andrea a Roma fu ospite per qualche mese di nonno Carmelo. Ebbe così modo di conoscere la sua storia e deve esserne rimasto colpito profondamente, se in seguito, rispolverando i ricordi giovanili, creò il commissario Montalbano ispirandosi proprio a lui».

Quali sono i punti in comune tra Montalbano e Carmelo Camilleri?

«Tralasciando la statura morale ineguagliabile di mio nonno, Montalbano ha molto in comune con lui, come il senso innato della giustizia e la passione per la buona tavola. Se Montalbano adora gli arancini di riso, nonno Bebè era talmente goloso da conservare in cassaforte la cassata alla siciliana rimasta dal pranzo, nel timore che qualcuno potesse portargliela via. Ma forse mi riesce più facile notare le loro diversità».

Per esempio?

«Montalbano tradisce la storica fidanzata, mentre il nonno fu un marito esemplare, innamoratissimo della moglie, con la quale nessuno lo sentì mai litigare. Inoltre la fede appare un elemento estraneo a Montalbano, mentre il nonno fu un fervente cattolico. Devoto a Padre Pio, lo difese nel suo tormentato rapporto con la Chiesa negli Anni 40 e riuscì a scongiurare il suo allontanamento dal convento di San Giovanni Rotondo, con l’appoggio del generale Emilio De Bono, allora capo della Polizia di Stato. E al frate con le stimmate il nonno dedicò nel 1952 un libro, ¨Padre Pio di Pietrelcina: nella vita, nel mistero, nei prodigi¨, che fu subito messo all’indice».

Insomma tra nonno Bebè e Montalbano c’è una bella differenza.

«Non tutti possono essere eroi e, comunque, mi fa piacere che il nonno abbia ispirato un personaggio tanto amato dalla gente».

Come giudica le opere di Andrea Camilleri?

«Non mi va di esprimere giudizi, ma Andrea Camilleri ha certamente il merito avere sdoganato gialli e thriller dal cliché di un genere letterario “minore” e di avere inventato uno stile e un linguaggio particolari, a sostegno di un importante fenomeno culturale.

Ovviamente ha avuto anche dei detrattori, come il critico Massimo Onofri, del quale, storpiandone il nome, si vendicò creando un personaggio odioso, “Minimo” Onofri presente nel suo romanzo ¨Il nipote del Negus¨.

Stefania, le piace Luca Zingaretti nei panni di suo nonno?

«Zingaretti è un bravissimo attore e ha compiuto grandi sforzi per esprimersi in dialetto siciliano, ma mio nonno era decisamente più alto e più bello!».

Insomma, nonno Bebè resta unico e inarrivabile?

«Assolutamente sì: basta guardarlo».

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Ecco il capitolo “il Commissario Camilleri” dal libro di Andrea Camilleri “Esercizi di memoria”

Il commissario Camilleri
La mattina del 12 aprile 1928, a Milano, una gran folla si è riunita in piazza Giulio Cesare per assistere all’arrivo del Re Vittorio Emanuele III che è venuto nel capoluogo lombardo per inaugurarvi l’VIII Fiera Campionaria. Pochi minuti prima dell’arrivo del Corteo Reale esplode una bomba piazzata nel basamento in ghisa di un fanale. Il basamento va in mille pezzi e le schegge uccidono venti persone e ne feriscono quaranta, quattordici presenti moriranno subito, altri sei nei giorni successivi moriranno in ospedale per le ferite ricevute.

La prima indagine sull’esplosione viene affidata a un Colonnello dei carabinieri molto esperto in esplosivi e balistica il quale in poche ore arriva alla conclusione che la bomba è stata fabbricata con un esatto dosaggio di esplosivo e che è stata azionata da un timer, la sua convinzione è che l’attentato non sia opera di dilettanti ma di gente molto esperta di esplosivi. Un telegramma di Mussolini incarica delle indagini sugli autori il capo manipolo della Milizia Ferroviaria di Milano, che in precedenza aveva sventato un attentato contro un treno speciale sul quale viaggiava lo stesso Mussolini. Nel telegramma Mussolini comunica la sua certezza che gli autori dell’attentato siano da ricercarsi tra gli elementi ostili al fascismo, soprattutto tra gli ex comunisti e gli anarchici. Parallelamente anche la Questura di Milano comincia a indagare. Nello stesso giorno si sparge la voce che prima dell’attentato di piazza Giulio Cesare, nella caserma Carroccio della MVSN (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) sia successo un curioso e grave incidente: che una pallottola partita casualmente dal moschetto di un milite abbia ucciso due commilitoni e ne abbia ferito seriamente altri tre. Un po’ troppo per una sola pallottola! E questo fa nascere il sospetto che in realtà si sia trattato di una sparatoria avvenuta all’interno della caserma proprio a causa dell’attentato che da lì a poco sarebbe avvenuto. Sono semplici voci ma la Questura di Milano, su suggerimento del commissario Carmelo Camilleri che da poco ha preso servizio in quella sede, opera una perquisizione nel circolo Oberdan al quale appartengono i fascisti più facinorosi e repubblicani di Milano e il cui nume ispiratore è proprio il federale fascista Mario Giampaoli. Quindi si apre quasi da subito la possibilità che le piste da seguire siano due: una, quella rossa, fatta da elementi comunisti e anarchici e l’altra, quella nera, fatta da fascisti dissidenti e repubblicani. Ma c’è poco da fare, gli ordini di Mussolini sono chiari e quindi la Questura di Milano deve agire quasi in sordina. Le prime indagini svolte dalla MVSN portano all’arresto di circa quattrocento persone, tutte rilasciate quasi subito perché risultanti completamente estranee al fatto, però i militi si prendono la rivincita. A Como arrestano il comunista Romolo Tranquilli e gli trovano in tasca, mal disegnata, la piantina di una piazza che i fascisti troppo facilmente individuano essere proprio piazza Giulio Cesare. Romolo Tranquilli viene arrestato e selvaggiamente torturato per fargli rivelare i nomi dei complici ma Tranquilli si difende disperatamente dicendo che al momento dell’attentato non si trovava in Italia e può dimostrarlo con un biglietto ferroviario. I fascisti però non lasciano la presa, Romolo Tranquilli oltretutto ha un fratello di nome Secondino che è un altissimo dirigente del Partito Comunista in clandestinità. Tanto per la cronaca: Secondino Tranquilli anni dopo abbandonerà il partito e diventerà uno scrittore mondialmente conosciuto con lo pseudonimo di Ignazio Silone. Con Tranquilli vengono arrestati altri cinque tra comunisti e anarchici ma il commissario Camilleri continua testardamente a seguire la pista nera e smonta l’accusa a Tranquilli dimostrando come la piantina rinvenutagli in tasca sia non di piazza Giulio Cesare a Milano ma di un’altra piazza di Como dove il Tranquilli avrebbe dovuto incontrare un compagno che non conosceva di persona.

Qui spendo qualche parola per illustrare la figura del commissario Carmelo Camilleri che era un cugino di mio padre e che io chiamavo zio Carmelo. Laureatosi in legge, aveva fatto un concorso per entrare nella Pubblica Sicurezza e l’aveva vinto, col grado di commissario, era stato mandato in Puglia. Era un fervente fascista e lì si era distinto per avere arrestato numerosi comunisti che ancora aderivano a un partito ufficialmente disciolto dal fascismo. Usava metodi brutali e violenti per cui ebbe a subire qualche richiamo dai suoi superiori, era avviato a una brillante carriera quando a un certo punto la morte improvvisa di sua figlia lo ridusse a uno stato tale da fargli perdere ogni interesse. Diventò quasi un peso per la polizia, tanto da subire tre trasferimenti in tre anni ma l’attentato alla Fiera lo fece ritornare l’acuto investigatore che era sempre stato. Continuando nelle sue quasi segrete indagini sulla pista nera, con l’aiuto di un maresciallo dei carabinieri e di due informatori sicuri, riuscì ad avere le prove che, a organizzare l’attentato erano stati i fascisti del circolo Oberdan in combutta con quelli della caserma Carroccio e che i cinque feriti di questa caserma non erano stati provocati da un colpo di moschetto ma bensì dallo scoppio della rimanenza dell’esplosivo usato per confezionare la bomba. Egli scrisse un lungo rapporto al capo della polizia Bocchini allegando prove e documenti, intanto il Tribunale Speciale istituito dal fascismo processava e condannava a morte per fucilazione i sei già arrestati. Bocchini non poté fare altro che consegnare il rapporto del commissario Camilleri a Mussolini, egli lo lesse attentamente e poi scrisse a margine: “Liquidate Camilleri” e lo siglò con la sua ben nota “M”. Camilleri venne immediatamente costretto dal Questore di Milano a dimettersi dalla polizia, egli allora andò a lavorare nello studio di uno dei difensori dei sei imputati ma non sopportava l’idea che sei innocenti, sia pure appartenenti a quel Partito Comunista che egli detestava, venissero fucilati e che i veri autori della strage restassero impuniti. Allora compì un atto temerario: riuscì a fare arrivare al giornale comunista francese “L’Humanité” la sua relazione con allegati gli atti probatori, la pubblicazione di questi scritti ebbe subito una grande ripercussione, anche altri giornali stranieri li pubblicarono e Mussolini venne messo alle strette tanto che la pena di morte fu, per suo ordine, tramutata in ergastolo. Però nel frattempo Romolo Tranquilli moriva per le sevizie riportate in carcere. Ci volle poco alla polizia milanese per scoprire che a mandare quelle carte all’estero era stato l’ex commissario Camilleri, perciò egli venne arrestato e dopo aver subìto un rapido processo davanti al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato venne condannato a cinque anni di confino. Qui si legò d’amicizia con un importante esponente del Partito Comunista quale Umberto Terracini. Al termine della pena, tornato a Roma dove abitava, non riuscì a trovare nessun lavoro. Tutte le porte gli venivano sbarrate, per sopravvivere fece i più umili e vari mestieri, tra l’altro per qualche tempo sopravvisse vendendo sputacchiere.

Nel dopoguerra ottenne la riabilitazione, fu reintegrato nella polizia col grado di vicequestore e gli vennero riconosciuti tutti gli arretrati ma egli preferì chiedere il pensionamento e venne nominato alto commissario per le carceri e i rifugiati politici.

A zio Carmelo ho voluto molto bene, per mesi sono stato ospite suo a Roma e a lungo mi parlò della sua rabbia di quei giorni milanesi quando vedeva i colpevoli girare impuniti per le strade e gli innocenti in carcere destinati alla morte. Ancora, a distanza di anni, quando tornava sull’argomento le lacrime gli colavano dagli occhi. Mi disse che era stato il periodo peggiore della sua vita, peggiore anche a quello che trascorse per la morte della figlia che adorava. Perché ne ho voluto qui ricordare la figura? Perché egli è stato sicuramente e anche inconsciamente l’ispiratore del mio commissario Montalbano, un uomo che per la ricerca della verità mette in gioco tutto se stesso.